SORA

Giuseppe Tomassi: una storia ancora moderna

L’11 Febbraio 1924, a Sora, nasceva Giuseppe Tomassi. Ripercorriamo le tappe principali della vita di un protagonista del Novecento sorano.

La storia di Giuseppe Tomassi è quella di un uomo che, partendo da una piccola falegnameria di famiglia, ha cambiato il volto economico e sociale di Sora, lasciando un segno profondo anche come artista e come figura umana.

Memoria e radici di una città

Ricordare Giuseppe Tomassi significa interrogarsi su cosa può fare un singolo individuo per una comunità. Prima di lui, Sora era soprattutto una città di commercianti, legata a una tradizione secolare di botteghe e piccoli scambi. Con lui nasce una vera stagione industriale, centrata sul mobile, che trasforma un borgo di provincia in un polo produttivo capace di dare lavoro a centinaia di persone e di portare il nome di Sora fuori dai confini regionali.

La sua vicenda dimostra come la memoria non sia nostalgia, ma strumento per capire da dove veniamo e misurare quanto abbiamo perso o guadagnato lungo la strada. Con la scomparsa di Tomassi e la fine della sua impresa, Sora ha perso non solo un’industria, ma anche un modello di imprenditoria concreta, sobria e visionaria.

L’addio a un protagonista discreto

Nel luglio 2013, durante la messa del trigesimo nel Duomo di Sora, l’atmosfera è fatta di mestizia composta e di rispetto. Non grida, non clamori: il tono è lo stesso che ha accompagnato tutta la vita di Tomassi, vissuta senza ostentazione, senza quella arroganza spesso tipica di chi arriva in fretta al successo.

Molti lo percepiscono come l’ultimo grande personaggio di una stagione irripetibile: l’epoca in cui Sora mostrava ambizione, coraggio, capacità di costruire. La città di oggi appare, per contrasto, come un luogo più spento, quasi un quartiere residenziale senza slanci, dove si alza spesso la voce ma si conclude poco, e dove l’“orgoglio sorano” sembra ridursi al tifo per la squadra di calcio.

Emblematica, in questo quadro, è stata la demolizione della fabbrica Tomassi: i capannoni che cadono sotto le ruspe, il grande complesso produttivo che lascia spazio a un palazzone incompiuto, la celebre “t” sul silos – simbolo dell’orgoglio cittadino – spezzata come un’ala. Quel crollo è stato percepito da molti come la fine di un’epoca: non solo la chiusura di un’azienda, ma il tramonto di una visione collettiva di sviluppo.

Dalle origini alla nascita della fabbrica

Giuseppe Tomassi nasce a Sora l’11 febbraio 1924, figlio del falegname Vincenzo e di Maria Corona. Nonostante studi regolari, la sua vera scuola è la falegnameria di famiglia in Via Napoli, dove scopre presto il fascino del legno, del suo profumo, della sua duttilità.

La moglie Maria Mitrano

La sua giovinezza è segnata da due lutti precoci: la morte della madre nel 1940 e quella del padre nel 1945. In anni difficili, fra guerra e povertà, Tomassi reagisce non chiudendosi, ma progettando. Nel 1944 sposa Maria Mitrano, compagna di vita e futura colonna dell’azienda. Con lei al fianco sceglie di trasformare il piccolo laboratorio paterno in una fabbrica di mobili.

Intorno al 1950 compra un terreno in Via Città di Castello e vi realizza il primo nucleo dell’insediamento industriale. Accanto a esso, al piano terra dell’abitazione in Via Giuriati, organizza una prima zona di finitura e un embrione di showroom, segno già moderno del suo modo di pensare l’impresa.

La nascita de “La Tomassi”

Tra il 1951 e il 1952 in fabbrica lavorano già una trentina di operai; nel 1955 gli addetti superano il centinaio. I sorani iniziano a chiamare l’azienda, semplicemente, “La Tomassi”. Il dopoguerra porta una forte domanda di mobili, e Tomassi intuisce che non bisogna più aspettare il cliente in bottega: bisogna produrre in serie e proporre il prodotto sul mercato.

I primi mobili – in particolare l’armadio a due ante, economico e alla portata di tutte le famiglie – vengono venduti con grande successo. La moglie Maria lascia il lavoro in banca e gestisce un punto vendita in Piazza Esedra, diventando il volto commerciale dell’impresa. Centrale è anche la collaborazione con Domenico Pacifico, che contribuisce alla distribuzione sul territorio, in particolare nella zona di Ceprano, fino a ottenere l’esclusiva della vendita dei mobili Tomassi.

Negli anni Sessanta lo showroom in Via Giuriati diventa un luogo di riferimento per chi cerca arredi moderni, mentre nuovi punti vendita aprono su Via Cadorna e Viale San Domenico. Nel frattempo, sul lotto industriale di Via Città di Castello, il complesso si amplia con nuovi capannoni e macchinari per rispondere a una richiesta in costante crescita.

Un’industria organizzata e moderna

Negli anni di massima espansione, l’area industriale Tomassi raggiunge circa 15.000 metri quadri, suddivisi in:

Alla guida di tutto c’è lui, Giuseppe Tomassi, presente ogni giorno in fabbrica. Controlla acquisti, progettazione, produzione, organizzazione del lavoro e distribuzione. Nessun settore sfugge al suo sguardo: la fabbrica è una macchina che funziona perché qualcuno la segue passo dopo passo.

I numeri parlano da soli: tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta gli addetti superano le cinquecento unità, il sito è uno dei più grandi impianti produttivi del mobile nel centro-sud Italia, e dalla catena escono ogni settimana 200–250 mobili, soprattutto camere da letto e camere da pranzo, destinati al mercato nazionale.

La forza di un modello industriale

La politica del personale è uno dei punti di forza dell’azienda. Tomassi riconosce i diritti previsti dalla legge, ma in più premia chi produce di più con il cottimo, valorizza persone non ancora specializzate riconoscendo loro rapidamente qualifiche e retribuzioni superiori, concede gratifiche extra a fine anno, in occasione di matrimoni e ricorrenze importanti.

L’imprenditore si comporta da pater familias: tutela i dipendenti, li considera parte della “sua” casa, comprende che un operaio sereno è un operaio produttivo. Questo clima fa sì che lavorare alla Tomassi sia percepito come un privilegio; molti piccoli falegnami, quando chiudono, trovano lì una nuova occupazione stabile.

Sul fronte produttivo, l’azienda punta su materie prime di qualità, acquistando direttamente tronchi, lavorati poi nel reparto segheria. Il legno più usato è il ramino del Borneo, mentre un episodio emblematico è l’aggiudicazione del taglio degli alberi a Roma per la realizzazione del Villaggio Olimpico del 1960: da quella commessa nasce un vantaggio competitivo notevole. Tomassi, inoltre, arreda parte del Villaggio Olimpico stesso, entrando così in un circuito prestigioso.

La presenza alle fiere – Fiera di Milano, Salone del Mobile, Fiera del Levante a Bari, Mostra d’Oltremare a Napoli – consolida il marchio. Celebre l’episodio in cui, inaugurando una fiera, il presidente del Consiglio Giulio Andreotti ignora la folla di personalità e si dirige deciso verso Tomassi per salutarlo: un gesto che testimonia la forza dei suoi legami e il peso della sua impresa.

La stagione delle tensioni e il declino

Con gli anni Settanta il contesto italiano cambia. Lo Statuto dei lavoratori del 1970, il clima del Sessantotto, la crescente politicizzazione dei luoghi di lavoro trasformano la fabbrica in un teatro di conflitti tra sindacati e imprenditori.

Sora rimane relativamente lontana dagli eccessi delle grandi città industriali, ma anche qui il vento della contestazione arriva. Nella Tomassi l’oggetto principale dello scontro diventa il cottimo, contestato da alcuni sindacalisti come pratica da superare. Alcuni scioperi vengono organizzati in modo da creare il massimo disagio alla produzione, non mancano episodi di boicottaggio: famosa una spedizione in Sicilia respinta perché parte dei componenti mancava o era stata manomessa.

Parallelamente, la crisi del mercato del mobile porta all’utilizzo della cassa integrazione, che a sua volta diventa terreno di scontro su modalità e turnazioni. Per un imprenditore come Tomassi – che ha sempre visto la fabbrica come un luogo di collaborazione – queste tensioni intaccano il gusto stesso di fare impresa.

Nel 1979 decide di chiudere lo stabilimento di Sora, pur continuando a credere nel proprio lavoro. Qualche anno prima ha infatti avviato un nuovo, modernissimo insediamento a Broccostella, orientato alla produzione di mobili moderni, assumendo molti giovani operai. Ma anche lì riaffiorano rivendicazioni (mensa, trasporti aziendali, benefici aggiuntivi) che alimentano ulteriore frizione.

Nel 1984, poco più che sessantenne ma logorato da anni di tensioni, Tomassi chiude anche la fabbrica di Broccostella. Si conclude così, quasi in silenzio, la più grande avventura industriale della storia sorana: quarant’anni di lavoro partiti dal nulla, senza truffe, senza contributi non restituiti, con i salari e i contributi regolarmente pagati, anzi spesso più del dovuto.

L’imprenditore e la politica

Nel corso della sua carriera, Giuseppe Tomassi intreccia rapporti stretti con figure di primo piano della politica nazionale, in particolare con Giulio Andreotti e con il senatore Ignazio Senese. C’è chi gli rimprovera di aver beneficiato di “favori”, ma la differenza rispetto a tanti “prenditori” dell’epoca è evidente: Tomassi rimane a Sora, investe sul territorio, crea lavoro e ricchezza, non prende incentivi per poi chiudere e fuggire.

Grazie alle sue sollecitazioni, su Sora e sul sorano arrivano investimenti significativi, opere infrastrutturali, interventi che modificano il destino di un’area intera. Quando Andreotti smette di occuparsi della città, molti collocano proprio lì l’inizio di una progressiva decadenza del territorio.

Non c’è buonsimo: Tomassi non è un santo né un benefattore puro. È un imprenditore intelligente, consapevole che i fattori della produzione – capitale, lavoro, organizzazione – funzionano solo se armonizzati. Non crede nello “sfruttamento”, ma in un equilibrio in cui impresa e lavoratori possano crescere insieme. È questa, forse, la sua vera modernità.

L’artista del legno

Accanto all’imprenditore, c’è l’artista. Dopo la chiusura delle fabbriche, Tomassi si ritira sempre più spesso nel suo piccolo laboratorio al seminterrato della casa, uno spazio sorprendentemente semplice: un banco da falegname, un tavolo, pochi utensili, qualche scaffale. Nessuna macchina imponente, nessuna scenografia industriale: solo silenzio e concentrazione.

Qui realizza mobili unici e soprattutto icone religiose a intarsio di straordinaria precisione. Disegna i soggetti, taglia e combina minuscole tessere di legno, affida la lucidatura al falegname Domenico Marcelli. Le sue opere – cassepanche, stipi, grandi pannelli sacri – sono caratterizzate da:

Molti lavori sono custoditi nelle chiese di Sora: il Duomo, Santa Restituta, San Giuseppe Artigiano, la chiesetta dell’Angelo Custode. Don Bruno Antotellis ricorda l’entusiasmo quasi infantile con cui Tomassi accompagnava ogni donazione, e la sua severità verso sé stesso: una volta chiese di “nascondere” una prima natività perché, col senno di poi, ci vedeva difetti; il parroco, naturalmente, la conservò con cura.

Tomassi non vende le sue opere: le dona. È convinto che ciò che nasce dalle mani, dal tempo e dall’anima non possa essere misurato in denaro allo stesso modo di un mobile di serie.

L’uomo dietro l’industriale

Parlare dell’uomo Giuseppe Tomassi significa mettere da parte le etichette. Non nasce ricco, non appartiene a famiglie blasonate: viene da un casato di falegnami, in una città devastata dal terremoto del 1915, poi colpita dalla guerra. Lontano dal vittimismo, trasforma le difficoltà in energia progettuale.

Tutti coloro che lo hanno conosciuto ricordano gli stessi tratti:

Con gli operai parla spesso in dialetto, entra nei reparti per controllare ma anche per capire, non si chiude nel suo ufficio. Sa essere esigente sugli errori, ma non umilia. Concede prestiti personali per esigenze familiari, poi restituiti con piccole trattenute in busta paga. La reputazione dell’azienda è tale che molti commercianti concedono credito ai suoi dipendenti “perché lavorano alla Tomassi”.

Aneddoti come il reintegro immediato di un ex operaio rientrato dal servizio militare senza un soldo, o i materiali donati ai monaci spagnoli ad Arpino dopo la chiusura, raccontano un uomo per cui il successo non aveva senso se non condiviso.

Il politico e il presidente dell’ospedale

Nel 1956 Tomassi si presenta alle elezioni comunali con la Democrazia Cristiana e viene eletto consigliere. È significativo il racconto di un operaio comunista convinto che, pur di non “tradire” l’uomo che gli aveva dato lavoro e dignità, decide di votarlo.

Molto più che in consiglio comunale, lascia il segno come presidente dell’Ospedale SS. Trinità di Sora, incarico che ricopre per circa quindici anni (1961–1975). In quel ruolo è considerato: rigoroso nei conti, pragmatico nelle decisioni e attento alla qualità dei servizi.

In quegli anni, grazie anche a lui, Sora ospita la Libera Facoltà di Medicina e Chirurgia, legata al grande chirurgo Paride Stefanini e sostenuta da Andreotti e Senese. Viene progettato un vero ospedale-policlinico e allestite aule universitarie nel Palazzo Leonetti. L’esperienza dura pochi anni, travolta da contrasti politici e da un clima locale non all’altezza dell’occasione, ma resta un tentativo coraggioso e lungimirante.

Del suo modo di fare politica colpisce l’orizzonte ampio, spesso in contrasto con la miopia di certo ambiente locale, più interessato alle piccole rivalità che al bene comune. Non stupisce che, dopo aver dato molto, Tomassi scelga di allontanarsi progressivamente dalle dinamiche partitiche.

Famiglia e passioni

La vita privata di Giuseppe Tomassi è segnata da un rapporto fortissimo con la moglie Maria Mitrano, vera alleata in ogni scelta. Lui porta visione, creatività, intuito; lei rappresenta pragmatismo, rigore amministrativo, capacità di esecuzione. Nessuna grande decisione viene presa senza il suo parere.

Con le figlie Mariella e Annolina e con i nipoti, Tomassi è sorprendentemente tenero. Non ama le prediche, ma comunica molto con sguardi, sorrisi, cenni discreti. Organizza matrimoni sontuosi, ma non dimentica di invitare tutti gli impiegati; promuove ogni anno, per San Giuseppe, un grande pranzo in fabbrica, a cui partecipano operai, tecnici, amministratori e spesso i sindaci di Sora.

Fuori dal lavoro coltiva molte passioni: la lettura (almeno tre quotidiani al giorno, più libri di classici, testi sacri, manuali tecnici); il calcio, con il tifo per la Roma e le frequenti trasferte allo stadio Olimpico; il mare, la villa tra Gaeta e Sperlonga e la barca “Annolina”, con cui naviga per anni insieme all’amico marinaio Gaetano.

Le sue giornate gaetane sono scandite da piccole liturgie: colazione al bar con i nipoti, passeggiate per comprare giornali o pesce, aperitivo serale in terrazza, cena al tramonto. Lì, lontano da pressioni e telefonate, si concede il lusso di una vita semplice.

Non manca un lato giocoso: negli anni Cinquanta progetta e costruisce carri allegorici per il carnevale sorano, come una grande nave corsara (primo premio nel 1954) e un carro ispirato a Venezia, rimasto bloccato in fabbrica per una nevicata eccezionale.

Gli ultimi anni e l’eredità morale

Negli ultimi tempi lo si vede spesso in Piazza San Lorenzo, in compagnia di un piccolo gruppo di amici: il genero Alberto Baglioni, Renato Martinelli, Fernando Fornari, Vincenzo Basile, l’avvocato Donato Mazzenga. Caffè al Bar Velluto, breve passeggiata al sole, chiacchiere tranquille. Alcuni ex dipendenti si avvicinano a salutarlo: nella stretta di mano, quasi di nascosto, Tomassi inserisce qualche banconota. Un gesto misurato, senza retorica, che riassume bene il suo modo di stare al mondo.

Oggi la fabbrica non c’è più, la “t” di Tomassi non domina più lo skyline di Sora, ma la sua opera è diventata storia. Rimane:

La sua vicenda è una lente attraverso cui leggere sia il meglio sia il peggio della storia recente di Sora: la capacità di sognare e costruire, ma anche la facilità con cui, per miopia o conflitto, si possono distruggere opportunità difficili da ricreare.

Esci dalla versione per mobile